Terapia Manuale: Opzionale ma Spesso Ottimale
Sono una fisioterapista in pensione che, negli ultimi 30 anni di una carriera di 50 anni, si è occupata di terapia manuale del dolore.
Mi piaceva il modo in cui accorciava il recupero dopo gli infortuni o aiutava le persone con dolore da anni e con cui erano stanche di avere a che fare.
Amo la terapia manuale, punto: È l’unica cosa che mi ha aiutato a risolvere i vari “dolori” fisici che non riuscivo a gestire da sola, incluse entrambe le ginocchia, una spalla congelata, un colpo di frusta, lombalgia e cervicalgia (non tutti insieme, grazie al cielo!).
La terapia manuale è stata generalmente insegnata in maniera procedurale, con ipotesi di modifica dei tessuti strutturali (smentite; 1, 2, 3) o delle posizioni articolari (smentite; 4, 5), senza alcun riguardo per l’apprendimento del sistema nervoso sensoriale o del dolore. Di conseguenza, i terapisti manuali si vedono di solito come “operatori” che fanno cose “alle” persone, spesso solo a colpi di fortuna. I successi sono grandiosi, ma i fallimenti non lo sono altrettanto.
Il mio progetto consisteva nel cambiare questo atteggiamento in me stessa; ho lavorato per diventare più intelligente con le mie mani, per imparare a sentire attraverso di esse invece di considerarle come strumenti o come qualcosa di magico. Ho imparato a riconoscere meglio quale tipologia di problematiche dolorose avrebbero risposto alla terapia manuale e quali no. Anche imparare che non si trattava di “me”. Per nulla.
Diventare un avida lettrice di scienza del dolore è stato di grande aiuto. Imparare tutto sulla neurodinamica (6, 7, 8), sul sistema nervoso sensoriale (9, 10), sulla fisiologia dei nervi (11) e sui nervi cutanei. Se il cervello umano è l’oggetto più complesso dell’universo conosciuto (12), mi è sembrato logico pensare che forse si corregga autonomamente, ma che a volte abbia bisogno di un contatto fisico con un altro cervello umano, attraverso le mani. Forse il cervello di qualcuno che considerava l’intero sistema nervoso, dalla cellula della pelle al senso di sé (13), come se avesse bisogno di un po’ più di informazioni per poter risolvere un problema al suo interno.
Ho definito questo approccio “interattivo” in contrapposizione a quello operativo (14, 15).
Ci sono molte condizioni di dolore su cui la terapia manuale non è in grado di intervenire. Tuttavia, c’è una tipologia di dolore per cui essa è grandiosa: il dolore che è confinato ad un arto o ad una regione (non si diffonde) e che cambia con la posizione/l’uso o il riposo, comunemente definito “meccanico” (che secondo me è una semplice neurite secondaria a una deformazione neurale) (16, 17). Per questo tipo di problematica dolorosa, la terapia manuale è una risposta appropriata.
Fortunatamente, sembra essere il tipo di dolore persistente più comune. Credo che questo spieghi perché, come terapisti manuali, siamo così numerosi nelle nostre varie professioni.
Ho adottato atteggiamenti fisici e interattivi che, ne sono certa, hanno migliorato di molto la percentuale di successo. Ecco 12 cose che ho fatto:
- Eliminazione di tutte le idee “basate sul tessuto” che avevo mai avuto perché qualcun altro le aveva ritenute importanti.
- Ascoltare molto di più e parlare molto di meno. (18, 19)
- Manipolare il corpo di qualcuno in modo assolutamente non nocicettivo. Dire loro in anticipo che non avrei fatto loro del male. E che se l’avessi fatto, me l’avrebbe detto subito in modo che potessi aggiustare la presa o l’angolazione.
- Manipolazione molto più lenta, molto più leggera, molto più gentile, molto più reattiva.
- Una presa molto più statica dell’organo cutaneo o della parte del corpo di una persona in una posizione che le permettesse di non sentire il dolore che aveva portato con sé. Un nuovo spazio in cui muoversi, percettivamente, sensorialmente.
- Qualsiasi cosa che rendesse minimo il mio sforzo fisico durante il trattamento. (Sono diventata una grande fan dell’uso di pezzi di Dycem grandi come una mano).
- Basso angolo di contatto (non perpendicolare), aspettando che la “presa” avvenga naturalmente prima di procedere ad un lentissimo scivolamento degli organi cutanei dai punti dolenti.
- Coinvolgere il paziente nel proprio trattamento, affidandogli il compito di dirmi cosa sentisse nel suo corpo man mano che procedevamo.
- Assicurarsi che capissero di avere un “locus of control” sulla manipolazione che sentivano e percepivano.
- Dare loro spazio per scegliere tra le opzioni: “In che modo ti senti meglio? Se muovo i tuoi nervi cutanei in questo modo… o in quest’altro?”. Dare loro il tempo di scegliere all’interno del proprio sistema nervoso. Credo che chiedere la loro opinione e scegliere qualcosa li abbia portati a focalizzare l’attenzione e a mantenerla.
- Il tutto finalizzato a dare loro l’opportunità di sentire sé stessi/la propria fisicità in modo diverso, incoraggiandoli a concentrarsi su ciò che sentivano di diverso nel tentativo di radicare i cambiamenti interocettivi nella loro mente.
- Chiedendo loro, alla fine, “Ti sembra che ci sia più spazio per te, ora?
Ho sistematizzato tutto questo in un approccio completamente privo di preoccupazioni per i tessuti strutturali, che ho chiamato dermoneuromodulazione – pelle, nervi, cambiamento. Non sono io a cambiare qualcosa, ma il loro sistema nervoso a cambiare sé stesso attraverso il sistema nervoso sensoriale, autocorreggendosi con un piccolo aiuto da parte di un esperto (20).
Per circa un decennio ho viaggiato e insegnato questo approccio, e ora altri lo stanno insegnando in vari paesi del mondo. La mia speranza è che, nel suo piccolo, possa aiutare la terapia manuale a migliorare i suoi risultati.
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